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114 il filocolo

con poco senno si regge chi in te ferma alcuna speranza. Di questo mostrò la reina grandissimo dolore, e molto ne pianse, ricoprendo con quelle lagrime il suo tradimento davanti ordinato. E veramente ne le pur dolse, ancor che assai tosto di tal doglia prendesse conforto e consolazione, imaginando che per la morte di lei, giá messa in ordine da non poter fallire al suo parere, l’ardente amore si partirebbe dal petto di Florio. Ma i fati non serbavano a sí fatto amore, quale era quello che è ne’ due amanti, sí fatta fine né sí corta, come costoro volevano senza cagione apparecchiare.

Quel giorno, nel quale la gran festa si faceva in Marmorina, era Florio rimáso tutto soletto di quella compagnia che piú gli piaceva, cioè del duca e d’Ascalione, in Montorio; e molto pensoso e carico di malinconia, ricordandosi che in cosí fatto giorno egli con la sua Biancofiore, vestiti di una medesima roba, solevano servire alla reale tavola, e avere insieme molta festa e allegrezza di canti e d’altri sollazzi. Onde sospirando, cosí incominciò a dire: «O anima mia, o dolce Biancofiore, che fai tu ora? Deh, ricorditi tu di me, sí come io fo di te! Io dubito molto che altro piacere non ti pigli per la mia assenza. Oimè, perché non m’è egli lecito solamente di poterti vedere? Io mi ricordo che in sí fatto giorno piú volte t’ho abbracciata, porgendoti puerili e onesti baci. Ove sono ora fuggiti i verdi prati, ne’ quali Priapo piú volte ci coronò di diversi fiori, cogliendoli noi con le nostre mani? E ove sono le ricche camere, le quali de’ nostri dimoramenti si rallegravano? Deh, perché non sono io teco, sí come io soleva, continuamente? O almeno di quanti giorni volge l’anno uno solo? O perché non mi se’ tu mandata come tu mi fosti promessa? Io credo che ’l mio padre m’inganna, sí come tu mi dicesti. E tu ora dimori nella gran sala, e ivi col tuo bel viso nuova luce porgi a molti, di tal grazia indegni, e a me misero, che piú che altra cosa ti disidero, è tolto il vederti. Maladetta sia quella deitá che si m’ha fatto vile, che io per paura del mio padre dubito di venirti a vedere, e ora ch’io possa o vederti o da te esser veduto. Oimè, quanto