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libro secondo 109

messi doni vi ringrazio, e priego gl’immortali iddii che la dove la mia possa al debito guiderdone mancasse, essi con la loro benignitá di ciò vi meritino»; e questo detto, onestamente fatta la debita reverenza, si partí, e con lieto viso tornò alla reina, narrandole gl’impromessi doni. A cui la reina disse: «Ben ti puoi oMai gloriare, pensando che uno sí fatto prencipe qual è il nostro re, e sei cotali baroni quali sono coloro che con lui sedeano, si sono tutti in tuo onore e piacere obbligati».

Rimase sopra alla real mensa il velenoso uccello, il quale il re, come Biancofiore si fu partita, comandò che tagliato fosse; per la qual cosa un nobilissimo giovane chiamato Salpadino, al re per consanguinitá congiunto, il quale quel giorno davanti il serviva del coltello, prese con presta mano il pavone, e, gittata a terra alcuna stremitá, cominciò a volerlo ismembrare; ma non prima caddero a terra le gittate membra, che un cane piccioletto, al re molto caro, le prese, e, mangiandole, incontanente gl’incominciò a surgere una tumorositá dal ventre, e venirgli alla testa, la quale tanto gli ingrossò subitamente che quasi piú era la testa grossa fatta che esser non soleva tutto il corpo; e similmente discorsa per tutti gli altri membri, oltre a’ loro termini grossi ed enfiati gli fece divenire; e i suoi occhi, infiammati di laida rossezza pareva che della testa schizzare gH dovessero, ed esso con doloroso mormorio, mutandosi di piú colori, disteso tal volta in terra e tal volta in cerchio volgendosi, in picciolo spazio quivi morí. La qual cosa da molti veduta, la gran sala fu tutta a romore levata, e i soavissimi strumenti tacquero, ostrandosi questo al re, il quale incontanente gridò: «Che può essere questo?». E voltato a Salpadino, il quale giá voleva fare la credenza, disse: «Non tagliare; io dubito che noi siamo villanamente traditi; prendasi un altro membro del presente pavone, e gittisi ad un altro cane, però che questo qui presente morto mostra che per veleno morisse, onde che egli il prendesse, o dalle stremita da te gittate in terra, o d’altra parte». Salpadino senza alcun dimoro gittò la seconda volta a terra un maggiore