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lei, sarei stata fuori delle mie pene, le quali poi continuamente sono diventate maggiori.

Oltre a questi pensieri miserabili mi si para davanti la tristizia della dolente Ero di Sesto, e vedere la mi pare discesa dell’alta torre sopra li marini liti, ne’ quali essa era usata di ricevere il faticato Leandro nelle sue braccia, e quivi con gravissimo pianto la mi pare vedere riguardare il morto amante sospinto da uno dalfino, ignudo giacere sopra la rena, e poi essa con li suoi vestimenti asciugare il morto viso della salata acqua, e bagnarlo di molte lagrime. Ahi! con quanta compassione mi strigne costei nel pensiero! In verità con molta più che nessuna delle donne ancora dette, tanto che talvolta fu che, obliati li miei dolori, de’ suoi lagrimai. E ultimamente alla sua consolazione modo alcuno io non conosco, se non de’ due l’uno: o morire, o lui, sì come gli altri morti si fanno, dimenticare. Qualunque di questi si prende, è il dolore finire; niuna cosa perduta, la quale di riavere non si possa sperare, può lungamente dolere. Ma cessi Iddio, però, che questo avvenga a me; il che se pure avvenisse, niuno consiglio se non la morte ci piglierei. Ma mentre che il mio Panfilo vive, la cui vita lunghissima facciano gl’iddii come egli stesso disia, non mi puote quello avvenire, però che, veggendo le mondane cose in continuo moto, sempre mi si lascia credere che egli alcuna volta debba ritornare mio, sì come egli fu altra fiata; ma questa speranza non venendo ad effetto, gravissima fa la mia vita continuamente, e però me di maggior doglia gravata tengo.

Ricordami alcuna volta avere letti li franceschi romanzi,