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al quale nuova vergogna d’antica colpa potrebbe nascere di leggieri; o almeno taci, non forse il tuo marito senta le triste cose, e per doppia cagione meritevolmente si dolga del fatto tuo.

Allora al ricordato sposo pensando, da nuova pietà mossa, più forte piango, e nell’anima volgendo la rotta fede e le male servate leggi, così dico alla mia balia: O fidissima compagna delle nostre fatiche, di poco si può dolere il mio marito. Colui che fu del nostro peccato cagione, di quello è stato agrissimo purgatore; io ho ricevuto e ricevo secondo i meriti il guiderdone. Niuna pena mi poteva il marito dare maggiore, che quella che m’ha porta l’amante: sola la morte, se la morte è penosa come si dice, mi puote il marito per pena accrescere. Venga adunque, e dèalami: ella non mi fia pena, anzi diletto, però che io la disidero, e più dalla sua mano che dalla mia mi fia graziosa. Se egli non la mi dà, o ella da sè non viene, il mio ingegno da sè la troverà, però che io per quella spero ogni mia doglia finire. Lo ’nferno, de’ miseri suppremo supplicio, in qualunque luogo ha in sè più cocente, non ha pena alla mia simigliante. Tizio ci è porto per gravissimo essemplo di pena dagli antichi autori, dicenti a lui sempre essere pizzicato dagli avoltoi il ricrescente fegato, e certo io non la stimo piccola, ma non è alla mia simigliante; chè se a colui avoltoi pizzicano il fegato, a me continuo squarciano il cuore cento milia sollecitudini più forti che alcuno rostro d’uccello. Tantalo similmente dicono tra l’acque e li frutti morirsi di fame e di sete; certo e io, posta nel mezzo di tutte le mondane delizie, con affettuoso appetito il mio amante disiderando, nè potendolo avere,