Pagina:Boccaccio - Decameron II.djvu/294

288 giornata decima

prestamente rivolse a Tito, e con lui se n’andò a Roma, dove con grande onore fu ricevuta. Gisippo rimasosi in Atene, quasi da tutti poco a capital tenuto, dopo non molto tempo, per certe brighe cittadine, con tutti quegli di casa sua, povero e meschino fu d’Atene cacciato e dannato ad esilio perpetuo. Nel quale stando Gisippo, e divenuto non solamente povero ma mendico, come poté il men male, a Roma se ne venne per provare se di lui Tito si ricordasse: e saputo lui esser vivo ed a tutti i roman grazioso, e le sue case apparate, dinanzi ad esse si mise a star tanto che Tito venne; al quale egli per la miseria nella quale era non ardí di far motto, ma ingegnossi di farglisi vedere, acciò che Tito riconoscendolo il facesse chiamare. Per che, passato oltre Tito ed a Gisippo parendo che egli veduto l’avesse e schifatolo, ricordandosi di ciò che giá per lui fatto aveva, sdegnoso e disperato si dipartí: ed essendo giá notte ed esso digiuno e senza denari, senza sapere dove s’andasse, piú che d’altro di morir disideroso, s’avvenne in un luogo molto salvatico della cittá, dove veduta una gran grotta, in quella per istarvi quella notte si mise, e sopra la nuda terra e male in arnese, vinto dal lungo pianto, s’addormentò. Alla qual grotta due li quali insieme erano la notte andati ad imbolare, col furto fatto andarono in sul matutino, ed a quistion venuti, l’uno, che era piú forte, uccise l’altro ed andò via; la qual cosa avendo Gisippo sentita e veduta, gli parve alla morte molto da lui disiderata, senza uccidersi egli stesso, aver trovata via: e per ciò, senza partirsi, tanto stette che i sergenti della corte, che giá il fatto aveva sentito, vi vennero e Gisippo furiosamente ne menarono preso. Il quale esaminato confessò sé averlo ucciso, né mai poi esser potuto della grotta partirsi, per la qual cosa il pretore, che Marco Varrone era chiamato, comandò che fosse fatto morire in croce, sí come allora s’usava. Era Tito per ventura in quella ora venuto al pretorio, il quale, guardando nel viso il misero condannato ed avendo udito il perché, subitamente il riconobbe esser Gisippo, e maravigliossi della sua misera fortuna e come quivi arrivato fosse: ed ardentissimamente disiderando d’aiutarlo, né veggendo alcuna altra via alla sua