ed a cantare; e cosí infino all’ora della cena passarono, la quale venuta, intorno alla bella fontana con festa e con piacer cenarono, e dopo la cena al modo usato, cantando e ballando, si trastullarono. Alla fine la reina, per seguire de’ suoi predecessori lo stilo, nonostanti quelle che volontariamente avean dette piú di loro, comandò a Panfilo che una ne dovesse cantare; il quale liberamente cosí cominciò:
Tanto è, Amore, il bene
ch’io per te sento, e l’allegrezza e ’l gioco,
ch’io son felice ardendo nel tuo foco.
L’abbondante allegrezza ch’è nel core
dell’alta gioia e cara
nella qual m’hai recato,
non potendo capervi, esce di fore,
e nella faccia chiara
mostra ’l mio lieto stato:
ch’essendo innamorato
in cosí alto e ragguardevol loco,
lieve mi fa lo star dov’io mi coco.
Io non so col mio canto dimostrare
né disegnar col dito,
Amore, il ben ch’io sento;
e s’io sapessi, mel convien celare:
ché, s’el fosse sentito,
torneria in tormento;
ma io son sí contento,
ch’ogni parlar sarebbe corto e fioco
pria n’avessi mostrato pure un poco.
Chi potrebbe estimar che le mie braccia
aggiugnesser giá mai
lá dov’io l’ho tenute,
e ch’io dovessi giugner la mia faccia
lá dov’io l’accostai
per grazia e per salute?
Non mi sarien credute
le mie fortune: ond’io tutto m’infoco,
quel nascondendo ond’io m’allegro e gioco.
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