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novella decima | 63 |
che le buone sempre possan giovare, con attento animo son da ricogliere, chi che d’esse sia il dicitore.
Dico adunque che ne’ tempi del primo re di Cipri, dopo il conquisto fatto della Terrasanta da Gottifrè di Buglione, avvenne che una gentil donna di Guascogna in pellegrinaggio andò al Sepolcro, donde tornando, in Cipri arrivata, da alcuni scellerati uomini villanamente fu oltraggiata; di che ella senza alcuna consolazion dolendosi, pensò d’andarsene a richiamare al re: ma detto le fu per alcuno che la fatica si perderebbe, per ciò che egli era di sí rimessa vita e da sí poco bene, che, non che egli l’altrui onte con giustizia vendicasse, anzi infinite con vituperevole viltá a lui fattene sosteneva, intanto che chiunque aveva cruccio alcuno, quello col fargli alcuna onta o vergogna sfogava. La qual cosa udendo la donna, disperata della vendetta, ad alcuna consolazione della sua noia propose di voler mordere la miseria del detto re; ed andatasene piagnendo davanti a lui, disse: — Signor mio, io non vengo nella tua presenza per vendetta che io attenda della ’ngiuria che m’è stata fatta: ma in sodisfacimento di quella ti priego che tu m’insegni come tu sofferi quelle le quali io intendo che ti son fatte, acciò che, da te apparando, io possa pazientemente la mia comportare, la quale, sallo Iddio, se io farlo potessi, volentieri la ti donerei, poi cosí buono portatore ne se’. — Il re, infino allora stato tardo e pigro, quasi dal sonno si risvegliasse, cominciando dalla ’ngiuria fatta a questa donna, la quale agramente vendicò, rigidissimo persecutore divenne di ciascuno che contro all’onore della sua corona alcuna cosa commettesse da indi innanzi.
[X]
Maestro Alberto da Bologna onestamente fa vergognare una donna, la quale lui d’esser di lei innamorato voleva far vergognare.
Restava, tacendo giá Elissa, l’ultima fatica del novellare alla reina, la quale donnescamente cominciando a parlar disse:
Valorose giovani, come ne’ lucidi sereni sono le stelle