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novella decima 329

cavalier dée fare: ché se io, non isforzandomi egli, l’avea del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena portare. Ma unque a Dio non piaccia che sopra a cosí nobil vivanda come è stata quella del cuore d’un cosí valoroso e cosí cortese cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai altra vivanda vada! — E levata in piè, per una finestra la quale dietro a lei era, indietro senza altra diliberazione si lasciò cadere. La finestra era molto alta da terra; per che, come la donna cadde, non solamente morí, ma quasi tutta si disfece. Messer Guiglielmo, veggendo questo, stordí forte, e parvegli aver mal fatto: e temendo egli de’ paesani e del conte di Provenza, fatti sellare i cavalli, andò via. La mattina seguente fu saputo per tutta la contrada come questa cosa era stata; per che da quegli del castello di messer Guiglielmo Guardastagno e da quegli ancora del castello della donna, con grandissimo dolore e pianto, furono i due corpi ricolti e nella chiesa del castello medesimo della donna in una medesima sepoltura fûr posti, e sopra essa scritti versi significanti chi fosser quegli che dentro sepolti v’erano, ed il modo e la cagione della lor morte.

[X]

La moglie d’un medico per morto mette un suo amante, adoppiato, in un’arca, la quale con tutto lui due usurieri se ne portano in casa; questi si sente; è preso per ladro; la fante della donna racconta alla signoria, sé averlo messo nell’arca dagli usurieri imbolata, laonde egli scampa dalle forche ed i prestatori d’avere l’arca furata son condannati in denari.


Solamente a Dioneo, avendo giá il re fatta fine al suo dire, restava la sua fatica; il quale ciò conoscendo, e giá dal re essendogli imposto, incominciò:

Le miserie degl’infelici amori raccontate, non che a voi, donne, ma a me hanno giá contristati gli occhi ed il petto, per che io sommamente disiderato ho che a capo se ne venisse.