Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
156 | Giovanni Boccacci |
Et le lor parte occulte ò palesate
Alla feccia plebeia scioccamente,
Non cal che più mi sien rimproverate5
Sì facte offese, perché crudelmente
Apollo nel mio corpo l’à vengiate
In guisa tal, ch’ogni membro ne sente.
Ei m’à d’huom facto un otre divenire,
Non pien di vento, ma di piombo grave10
Tanto, ch’appena mi posso mutare1.
Né spero mai di tal noia guarire,
Sì d’ogni parte circondato m’àve;
Ben so però che dio mi può aiutare.
CXXIII.
AL MEDESIMO.
Se Dante piange, dove ch’el si sia2,
Che li concetti del suo alto ingegno
Aperti sieno stati al vulgo indegno,
Come tu di’, dalla lettura mia3,
Ciò mi dispiace molto, né mai fia5
Ch’io non ne porti verso me disdegno:
Come ch’alquanto pur me ne ritegno,
Perché d’altrui, non mia, fu tal follia4.
- ↑ «Muovermi da un luogo ad un altro.» Per quest’accenno alla pesantezza della persona, che afflisse negli ultimi anni l’esistenza del poeta, cfr. p. 142, n. 5
- ↑ «Dovunque si trovi.»
- ↑ È, meglio precisato, il medesimo concetto che in forma metaforica era stato espresso in CXXII, 1-4.
- ↑ Intendasi ‘che non di sua iniziativa fu fatta questa lettura, né fu perfettamente libero nella sua decisione, come spiegherà nei versi successivi’ (Zingarelli).