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142 | Giovanni Boccacci |
Et però contro a me stesso non sdegno,5
Se ’l glorioso ben di paradiso1
Scriver2 non so, né l’angelico viso,
Ch’à ’l mio cor seco nel celeste regno.
Ma chi desia veder quella bellezza,
Che sola tenne in la vita mortale,10
D’huom non aspetti alcun dimonstramento;
Ma di sacra virtù s’impenni l’ale
Et su sen voli in la suprema altezza3:
Lì la vedrà, et rimarrà contento.
CVI.
Sì acces’et fervente è il mio desio
Di seguitar colei, che quivi in terra
Con il suo altero sdegno mi fe’ guerra4
Infin allor ch’al ciel se ne salio,
Che, non ch’altri, ma me metto in oblio:5
Et parmi nel pensier, che sovent’erra,
Quella gravezza perder che m’atterra5,
Et quasi uccel levarmi verso dio,
Et trapassar le spere6, et pervenire
Davanti al divin trono, infra i beati,10
- ↑ La Fiammetta.
- ↑ «Descrivere.»
- ↑ In cielo.
- ↑ Anche Laura dice a messer Francesco, nel son. Levommi il mio penser in parte ov’era: ‘I’ son colei che ti die’ tanta guerra’ (v. 7). Per l’altero sdegno cfr. qui, p. 81, n. 2.
- ↑ La pesantezza della persona, di cui il Boccacci si confessa gravato nel sonetto CXXII, 9-11, e in lettere del 1372 e ’73.
- ↑ I cieli.