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126 | Giovanni Boccacci |
Quando tal donna, quale ad Oloferne5
Con fiero augurio si arse il tristo core1,
M’apparve, accesa con quello splendore
Ch’è terza luce ne le rote eterne2.
Et femi tal, vezzosa riguardando,
Qual fe’ Cupido la figlia di Belo3,10
Stando ella attenta et Enea ragionando4.
Là ond’io ardo, et, ardendo, del gielo5
Che sentì Biblis6 temo, imaginando
Che ’l vestir bruno et il candido velo7
Non la faccia crudel o vero honesta,15
Oltre ’l disio che per lei mi molesta.
LXXXIII.
S’io veggio il giorno, Amor, che mi scapestri
De’ lacci tua, che sì mi stringon forte,
Vaga bellezza né parole accorte
Né alcun altri mai piacer terrestri
Tanto potranno, ch’io più m’incapestri5
- ↑ «Simile a quella che infiammò il cuore di Oloferne», a Giuditta, vedova appunto come la donna cantata nel presente sonetto (cfr. qui sotto, n.7), la quale è quasi certamente quella stessa di cui si tratta nel Corbaccio.
- ↑ Venere.
- ↑ Didone.
- ↑ È una reminiscenza vergiliana (Aen., I, 613-614).
- ↑ «Zelo, ardore.» Cfr. XCIX, 6; CXVI, 12.
- ↑ Biblide, figlia di Mileto, amò disperatamente il fratello Cauno, respinta dal quale s’impiccò (Ovidio, Ars am., I, 283-284), o, consunta di dolore, fu trasformata in una fonte (Met., IX, 449-664).
- ↑ Indizi dello stato vedovile della donna. Anche nel Corbaccio son rammentate di questa ‘le bende bianche e i panni neri’.