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Rime 111

LXXV.


I’ non ardisco di levar più gli occhi
     Inverso donna alcuna,
     Qualora i’ penso quel che m’à ffatt’una.
Nissuno amante mai con fermo core
     O con puro volere5
     Donna servì, com’io servia costei;
     E quando, più fedele al suo valore,
     Credia merito avere,
     Giovane novo fe’ signor di lei.
     Ond’io bassando gli occhi dico, omei:10
     Non ne mirar nissuna,
     Ché come questa forse inganna ognuna1.


LXXVI.


Non so qual i’ mi voglia,
     O viver o morir, per minor doglia.
Morir vorre’, che ’l viver m’è gravoso,


  1. Questa e la successiva ballatina riflettono il motivo del tradimento, e però non m’è parso si dovessero disunire dai sonetti precedenti, i quali per altro appaiono scritti immediatamente sotto quell’amara impressione; non potrebbe dirsi lo stesso delle due ballate, che ànno un sapore molto più letterario e convenzionale che intimo e soggettivo, onde si rivelano composte parecchio tempo dopo quegli avvenimenti. La LXXVI fu musicata già nel Trecento dal maestro Lorenzo da Firenze (che intonò anche il madrigale XXXIII), e forse appunto per la musica fu scritta: ciò che, a mio parere, è da supporsi anche per l’altra.