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78 | Giovanni Boccacci |
XXXVIII.
Pervenut’è insin nel secul nostro
Che tante volte il cuor di Prometheo
Con l’altre parti dentro si rifeo,
Di quante se ne pasce’ un duro rostro;
Il che parria forse terribil monstro,5
Se non fesse di me simil tropheo
Sovent’Amor, ch’a scriverlo poteo
Far del mio lagrimar penna et inchiostro.
Io piango et sento ben che ’l cor si sface;
Et allor quand’egli è per venir meno,10
Debile smunto et punto per l’affanno,
O dio! nascoso sento che ’l riface
El mio destin: là onde eterne fieno
Le pene che mi disfanno et rifanno.
XXXIX.
Sì tosto come il sole a noi s’asconde
Et l’ombra vien, che ’l suo lume ne toglie,
Ogn’animale in terra si racoglie
Al notturno riposo, insin che l’onde
Di Gange rendon con le chiome bionde5
Al mondo l’aurora, et le lor doglie
I duri affanni et l’amorose voglie
Soave somno allevia o le confonde.
Ma io, come si fa il ciel tenebroso,
Sì gran pianto per gli occhi mando fore,10
Che tant’acqua non versan dua fontane;