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desinare e cenare insieme, non trasandando né nel modo del convitare né nelle spese: e cosi ancora invitavan talvolta de’ lor vicini e degli onorevoli cittadini. E, se avveniva che alcun gentiluomo venisse nella cittá, quella brigata si riputava da piú, che prima il poteva trarre dell’albergo e piú onorevolmente ricevere. E tra loro sempre si ragionava di cortesia e d’opere leggiadre e laudevoli. E questo è quello di che costui domanda se piú in Firenze s’usa, conciosiacosaché alli lor tempi s’usasse, disiderando di saperlo dall’autore, comeché Guiglielmo Borsiere, il qual visse si lungamente, che mostra che a’ suoi tempi quella usanza vedesse, e cosi ancora la vedesse intralasciata.

E a questa domanda fa l’autore la seguente risposta: — «La gente nuova, e i súbiti guadagni, Orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, si che tu giá ten piagni. — Cosi gridai con la faccia levata».

Dice adunque che «la nuova gente», intendendo per questa coloro li quali, oltre agli antichi, divennero abitatori di Firenze; e, si come io estimo, esso dice questo per molti nuovi cittadini, e massimamente per la famiglia de’ Cerchi, li quali poco davanti a’ tempi dell’autore erano venuti del Pivier d’Acone ad abitare in Firenze; e subitamente, per Tesser bene avventurati in mercatanzie, erano divenuti ricchissimi, e da questo orgogliosi e fuor di misura: e, percioché, come altra volta è stato detto, erano salvatichetti, e poco con gli altri cittadini comunicavano, e in questo avevano in parte ritratto indietro il buon costume delle brigate; e, oltre a ciò, per la loro alterigia avevano Firenze divisa, come davanti è stato mostrato, e avevanla in si fatta guisa divisa, che la cittá giá se ne dolea, in quanto molti scandali e molti mali, e uccisioni e ferite e zuffe n’eran seguite: la qual cosa l’autore, si come colui al qual toccava, turbato e col viso levato al cielo, quasi della pazienza di Dio dolendosi, disse. «E i tre», cioè quelle tre ombre, «che ciò inteser per risposta», fatta alla lor domanda, «Guatar l’un l’altro, come al ver si guata», cioè turbati, dando piena fede alle parole.