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come pienamente si tratterá nel decimosettimo canto del Paradiso. Ma, percioché qui, poeticamente parlando, l’autore dice «fate» in plurali, è da sapere, secondo che i poeti scrivono, che queste fate son tre, delle quali la prima è nominata Cloto, la seconda Lachesis, la terza Atropos; e, secondo che dice Teodonzio, elle furon figliuole di Demogorgone e di Caos. (Vuoisi qui recitare la favola di Pronapide dell’origine di queste fate, e la sposizion di quella). Ma Tullio, il quale le chiama Parche, in libro De natura deorum, scrive queste essere state figliuole d’Èrebo e della Notte; ma io m’accosto piú con l’opinione di Teodonzio, il quale vuole queste esser create insieme con la natura naturata, il che par piú conforme alla veritá. Queste medesime nel preallegato libro chiama Tullio «fato», quel medesimo dicendo essere stato figliuolo d’ Èrebo e della Notte. Seneca, in una epistola a Lucilio, le chiama «fate», dicendo nondimeno quello che scrive essere stato detto d’un filosofo chiamato Cleante, il qual dice: «i fati (o le fate), menano chi vuole andare, e chi non vuole andare tirano». Ma questa è malvagia sentenza e da non credere, percioché, se cosi fosse, noi saremmo senza il libero arbitrio; il che è falso. E questa medesima sentenza par molto piú apertamente sentire Seneca tragedo, in quella tragedia la quale è intitolata Edipo, dove dice: Fatis agimur, credite Fatis: non solliciiae possunt curae mutare rati stamina fusi. Quidquid patimur mortale genus, quidquid facimus, venit ex alto, servatque sua decreta colus Lachesis. Dura revoluta manu, omnia certo tramite vadunt, primusque dies dedit extremum. Non illa deo vertisse licei, quae nexa suis currunt causis. It cuique ratus, prece non ulla mobilie, ordo; multis ipsum timuisse nocet: multi ad fatum venere suum, dum Fata timent, eco.