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cardinali da questo nome «cardo, cardinis», il quale ne significa quella parte del cielo sopra la quale tutto il cielo si volge, per altro nome chiamata «polo» (o «poli», percioché son due) e cosí da «cardo» vien «cardinale»; o, secondo che alcuni altri dicono, da quella parte della porta, sopra la quale si volge tutto l’uscio.] «In cui», cioè ne’ quali, «usò avarizia il suo soperchio». È avarizia, secondo Aristotile nel quarto della sua Etica, la inferiore estremitá di liberalitá, per la quale, oltre ad ogni dovere, ingiuriosamente si disidera l’altrui, o si tiene quello che l’uom possiede: della quale piú distesamente diremo, dove discriveremo l’allegorico senso della parte presente di questo canto. Questo vizio dice l’autore usare «il suo soperchio», cioè il disiderare piú che non bisogna e tenere dove non si dee tenere, ne’ cherici, ne’ quali tutti intende per queste due maggiori qualitá nominate: la qual cosa se vera è o no, è tutto il di negli occhi di ciascuno, e perciò non bisogna che io qui ne faccia molte parole.

E, avendo qui l’autore dichiarato qual sia in parte quel vizio che in questo quarto cerchio si punisce, cioè avarizia, vuol che s’intenda per le parole dette di sopra («Ove colpa contraria gli dispaia»), con questo vizio insieme punircisi l’opposito dell’avarizia, cioè la prodigalitá, la quale è il superiore estremo di liberalitá: e come l’avarizia consiste in tenere stretto quello che spendere bene e dar si dovrebbe, cosí la prodigalitá è in coloro, li quali dánno dove e quando e come non si conviene; benché poco appresso l’autore alquanto piú apertamente dimostri sé intender qui punirsi questi due vizi. «Ed io: — Maestro, tra questi cotali», che tu mi di’ che furon cherici, e ancora tra gli altri, «Dovre’ io ben riconoscere alcuni», percioché furono uomini di grande autoritá, e molto conosciuti, come noi sappiamo che sono i papi e i cardinali e i signori e gli altri che in questi due peccati peccano (o vogliam dire: percioché l’autor peccò in avarizia, e l’un vizioso conosce l’altro); «Che fúro», vivendo «immondi», cioè brutti e macolati, «di cotesti mali», — cioè d’avarizia e di prodigalitá.