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capitolo viii | 165 |
Ecco adunque, o donne, che per gli antichi inganni della fortuna io sono misera; e oltre a questo, essa, non altramente che come la lucerna vicina al suo spegnersi suole alcuna vampa piena di luce maggiore che l’usato gittare, ha fatto: però che, dandomi in apparenza alcuno rifrigerio, me poi nelle separate lagrime ritornante, ha miserissima fatta. E acciò che io, posposta ogni altra comparazione, con una sola m’ingegni di farvi certe de’ nuovi mali, v’affermo con quella gravitá che le misere mie pari possono maggiore affermare, cotanto essere le mie pene al presente piú gravi, che esse avanti la vana letizia fossero, quanto piú le febbri sogliono, con egual caldo o freddo vegnendo, offendere li ricaduti infermi che le primiere. E perciò che accumulazione di pene, ma non di nuove parole, vi potrei dare, essendo alquanto di voi diventata pietosa, per non darvi piú tedio in piú lunga dimoranza traendo le vostre lagrime, s’alcuna di voi forse leggendo n’ha sparte o spande, e per non ispendere il tempo che me a lagrimare richiama in piú parole, di tacere omai dilibero, faccendovi manifesto non essere altra comparazione del mio narrare verissimo a quello che io sento, che sia dal fuoco dipinto a quello che veramente arde. Al quale io priego Iddio, che o per li vostri prieghi, o per li miei, sopra quello salutevole acqua mandi, o con trista morte di me, o con lieta tornata di Panfilo.