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renazzi cav. emidio

saltellando, senza posarvisi sopra a lungo per ben conoscere e studiarne la storia, ideò scrivere della casa un breve compendio, «redatto, leggesi nel frontespizio, colla scorta dei più accurati storici» mentre più semplicemente avrebbesi dovuto chiamarlo - riassunto del Cibrario. - Il Renazzi chiamò però questo suo compendio che dedicò agli Italiani «strenna,» e ben fece, perchè se visse, la fama durò quanto una strenna. - Il che tanto più francamente è a dirsi, posciachè se il celare la verità nella storia, o l’alterarne i criteri con i giudizi è male, pessimo è poi per omaggio a casati ammannire una storia che di vero non ha che appena i nomi e le epoche. Il Renazzi con la sua strenna avrà benemeritato di casa Savoia, non già della italiana storia, e se quel libro fosse giunto a tanto da farsi conoscere, che avrebbero detto gli storici veri e coscienziosi leggendo di Vittorio Amedeo II la vita e la fine? Quando la verità veste il bruno, la si lascia, chè non è lecito vestirla in corsetto e guarnello perchè quasi procace forosetta civetti co’ grandi per guadagnar sorrisi al padre putativo.

Il governo pontificio sia che il propaginatore della storia nel Renazzi volesse punito, o che un satellite in esso vedesse aggirantesi nell’orbita della sabauda monarchia, fatto è che preselo sotto vari titoli ad invigilare; ma le noie di tale vivere vennero al lodatore di casa Savoia allietate dalla croce dell’ordine Mauriziano. Quella croce parve lo spingesse a più magnanime cose, sì che arruollavasi nei pacifici e tanto comuni Comitati patriottici. - Morte crudelissima rapivagli intanto il principe Bonaparte, il quale del sommo affetto e della stima profonda che al Renazzi aveva professata, lasciogli prova splendidissima creandolo proprio erede assoluto ed universale. - H Renazzi entrò in possesso della eredità che sovranamente era ricchissima, ma poscia, per atto che parve di singolarissima generosità, ne fece rinunzia dichiarandosi semplicemente esecutore testamentario . - Fosse allora che qualche interno affanno lo cuocesse, o che smaniasse per ammirare e respirare la stupenda poesia dell’Oriente, nel dì 28 agosto del 1867 preso commiato dagli amici, detto addio a Roma, montò un vagone di ferrovia, e viaggiando Italia, Francia, Baviera, Austria, Ungheria, dal Danubio entrato nel Mar Nero, passò a Costantinopoli.

Romeo del secolo XIX, dalle incantevoli rive del Bosforo passa a Smime, a Efeso, a Damasco, vede Sidone e Tiro, sale il Carmelo, visita Gerusalemme, adora il gran sepolcro, ed in ogni luogo descritto sul vangelo, dal melanconico lago di Genesareth ai boschetto degli ulivi, dalla vetta del Taborre al tetro bacino del Mar morto, dal Golgota a Betlem, da Gerico ai balzi di Moab, dapertutto sente aprirsigli l’anima a gioie incomprese, ad emozioni vivissime; i secoli gli sfilano dinnanzi; i potenti Faraoni quasi giganti di un mondo finito; gli Ebrei ora piagnucolosi sulle rovine del tempio, ed ora tristissimi che libertà pospongono all'olla putrida d’Egitto; Geremia che plora, Ezecchiello che minaccia, Isaia che spera; Dario ed i Romani; Gesù dolcissimo che ammaestra, consola, risana; Tito che acquista nome di pio e clemente sovra