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ramelli alessandro

Della di lui fede politica parlando diremo, appartenere egli alla schiera dei così detti moderati, perocché sebbene un tempo credesse che il Papato, spoglio della potestà temporale, meglio si conciliasse con la Repubblica, e più indipendente si mantenesse nel suo spirituale dominio, pure oggi tiene opinione contraria, e porta convinzione che solo con la moderazione, ed accettando la Monarchia può sostenersi l’unità ed indipendenza d’Italia, può conciliarsi il Papato, e farsi sempre più grande la Nazione, mentre, secondo sua sentenza, non è ammissibile la Repubblica stante il disordinamento di principii, e l’attuale corruttela sociale. — Se in ciò ben si apponga il Ramelli, o vada grandemente errato, non è a discutersi nel breve tramite di questa biografia. — Basti solo aver quanto sopra notato per porre in rilievo la di lui opinione politica.

Volgeva l’anno 1850 e il Ramelli toglieva in moglie la Isabella Graziosi figlia di quel distinto agronomo, che ha lasciato di sè nominanza altissima. — Se con lei s’ebbe tutte quelle divine voluttà, che solo con gentilissima e virtuosissima donna possono aversi, gli mancarono però le gioie della figliuolanza che forse lo avrebbero distolto dal dedicarsi a tutt’uomo all’agricoltura, siccome fece dal 1850 al 1860 sulla scorta delle nozioni imparate dal suocero.

E ad acquistare più vasta istruzione su tale materia intraprese lunghi viaggi. — Fu in Francia, nel Belgio, in Inghilterra e dappertutto fece tesoro di nuove, svariate ed infinite cognizioni agrarie, per guisa che tornato in Roma fu invitato a far parte di una Commissione creata dalla Università dei commercianti, allo scopo di prescrivere le norme atte a migliorare la coltura nell’Agro Romano. — Ma poiché gli altri Membri della Commissione oppugnavano il sistema dell’enfiteusi dei beni di Mano-Morta, che egli sosteneva come il mezzo più facile a raggiungere il fine di una progressiva coltivazione, il che sostiene tuttavia anche contro coloro, che di quei beni preferiscono la vendita, nè potendo venire in accordo con la maggioranza, stimò meglio ritirarsi.

Correva l’autunno del 1860 e una sequela di fatti si svolgevano nuovi nella storia dell’italico risorgimento — La gloriosa impresa dei Mille, i miracoli di Garibaldi, di questo genio onnipotente del popolo, che nella famosa battaglia del Volturno contro i nemici ruotando la fulminea sua spada, gridava ai suoi valorosi con la voce d’un dio: — Miei cari se oggi non vinciamo, si piangerà molto in Italia — e si vinse; — il trionfante ingresso di lui in Napoli, la sua dittatura, la sua sublime abnegazione nel rassegnare i poteri, il suo ritiro a Caprera, la battaglia di Castelfidardo, la convocazione del Parlamento Nazionale, il plebiscito, l’anatema del Papa, la occupazione delle Marche e dell’Umbria, e il sospingersi delle regie truppe in Montefiascone, Viterbo e Civita Castellana, tuttociò avveniva in quel breve autunno.

E allorché le regie truppe entrate in Civita Castellana ne ripartivano pel