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tata dalle spalle; un venerdì senza testa. Ma il Profosso non sì muta mai, – è inesorabile; e ogni giorno viene a menarmi fuori per prendere un’ora d’aria, com’egli dice, e spesso mi tocca invece un’ora d’acqua. E sul primo anche questo era un conforto, – ora non è più. È sempre il medesimo Forte..., – le medesime salite, – le medesime scese, – i medesimi sassi ribelli, e pronti ad offenderti, – i medesimi cannoni, – i medesimi soldati; – non si trova un uomo, o una donna, se tu li pagassi al peso dell’oro.
Il Profosso è una disperazione; – quando io gli chiedo, se ci è nessuna nuova del mondo, mi risponde sempre, che non vi è nulla di nuovo. Possibile mai! – bisognerebbe, che tutto il mondo fosse in prigione. – Eccolo là il Profosso! è inconvertibile. – Viene tre volte al giorno nella mia stanza, uguale uguale, senza pendere un capello da quello che era la vigilia; e mi dice se può entrare, quando è già entrato; e, allorchè se ne va, mi domanda se io voglio nulla. Egli lo fa per dovere, non ci mette ironia, – così voglio credere; – ma quella dimanda mi fa il sangue più agro. O Profosso! Profosso! Se tu sapessi quello che io voglio, certamente non me lo dimanderesti due volte. D’ogni tre volte due almeno io voglio, che tu vada al diavolo.
E la notte? – non me la rammentate, per l’amore che portate a voi stessi. La notte è per me l’eternità di un dannato. La notte con quel suo vasto silenzio, così propizia ai fantasmi poetici, al meditare profondo, per me non significa nulla; e mi scende sull’anima, fredda, piatta, e pesante come una lapide. Invoco il sonno coi nomi più lusinghieri, ma vanamente. Disteso sopra un letto nè cattivo nè buono, mi volto a destra, mi volto a sinistra, mi giac-