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marsi delle lingue romane nel mezzogiorno dell’Europa, contiene la storia letteraria degli Arabi, dei Provenzali, dei Trovatori di Linguadoca, degl’Italiani, degli Spagnuoli, e dei Portoghesi. La storia degli ultimi tre popoli è condotta sino alla fine del Secolo XVIII, terminando col Parini, Monti, Pindemonte, Yriarte, Melendez Valdes, Manoel, Cruz e Silva, e Da Cunha, ma la letteratura Italiana è più distesamente trattata. E mentre il Sismondi cominciò il suo lavoro, non era uscita peranche la celebrata opera del Ginguené, della quale egli si giovò notabilmente nelle successive edizioni. Ma coll’averlo riveduto e ingrandito non per questo riuscì libro per i dotti, ma piuttosto adattato alla comune dei lettori. Nè vi si trovano profonde ricerche, ma una cognizione familiarissima di Dante, e dei più egregi scrittori, e un caldo senso delle loro bellezze. Mancano le vedute larghe e grandiose, manca un’intuizione profonda nell’essenza dell’Italiana Letteratura, una definizione propria e distinta delle epoche e degli scrittori, specialmente dei prosatori, tra i quali sporge principalissimo il Machiavelli. La critica dell’Autore trascorre la superficie, ma il libro dà facili indizi, che fu composto da un uomo, che conosce a fondo, ed ama sinceramente l’Italia, e le sue Lettere. Il difetto più grande degli altri però occorre súbito sul principio, ed è il non dimostrare chiaramente come al finire del Secolo XIII, e al cominciare del XIV, la prosa e la poesia si svolgessero dai primordi della Lingua e delle Lettere, cose che l’Autore a torto mette in un canto come nude anticaglie. E così dopo un paio di pagine siamo súbito a Dante, saltando in questa guisa un periodo importante, che in tempi più recenti fu meritamente