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una scintilla di fuoco, e senza tor licenza lasciò il Greco e il Latino, – e gittandosi alle ginocchia del mio Zio Tobia, gli chiese la spada di suo padre, e la permissione di andare a tentare la ventura sotto d’Eugenio. Due volte il mio Zio Tobia si dimenticò la ferita, – e gridava: ― io verrò teco, o Le Fever! io verrò teco, e tu combatterai al mio fianco; ― e due volte si pose la mano sull’inguinaia, e piegò la testa nel dolore, e nello sconforto. Il mio Zio Tobia spiccò la spada dal gancio ove era stata appesa, intatta sempre dopo la morte del Luogotenente, e diella al Caporale perchè la forbisse; e avendo intertenuto Le Fever quindici giorni soli onde fornirlo del bisognevole, e contrattare il suo passaggio a Livorno, gli pose in mano la spada, e: ― se tu sei valoroso, – disse il mio Zio Tobia, – questa non ti fallirà. ― Ma il può la fortuna, – diss’egli pensoso un tal poco. ― Il può la fortuna, e se ella ti fallisce, – soggiunse il mio Zio Tobia, – nuovamente ripara a me, o Le Fever, e noi ti diviseremo altro corso. ― La più grave ingiuria non avrebbe oppresso di tanto il cuore a Le Fever, quanto la paterna amorevolezza del mio Zio Tobia, – e si divise da lui, come l’ottimo dei figli dall’ottimo dei padri: – ambedue piangevano, – e mentre il mio Zio Tobia gli dava l’ultimo bacio, fece scorrergli in mano 60 ghinee, avvolte in una vecchia borsa di suo padre, ove era ben anche l’anello di sua madre, e l’accomiatò benedicendolo nel nome di Dio. Giunse Le Fever all’armata imperiale nel punto di provare di che metallo fosse temperata la sua spada nella sconfitta dei Turchi dinanzi Belgrado: ― ma da quel momento lo perseguitava una serie di disastri non meritati per quattro anni continui, – e resisteva a queste percosse