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II.


Carissimo Padre

La nostra partenza di Livorno fu piuttosto un ratto, che una partenza.... Sul principio del viaggio fu calma profonda; – il legno andava piuttosto con remi, che con la vela. Poi, due ore dopo incirca, si levò un vento fresco, forse troppo fresco; – allora piuttosto che andare volavamo. In mezzo a questa furia di vento un uomo ebbe a perire: faceva sue manovre in cima a un albero da poppa, quando l’albero per vecchiaia si troncò nel fondo; e se non era la sua destrezza, l’uomo periva di certo. Nessuna industria umana avrebbe potuto ritirarlo a bordo, tanto quel diavolo di vento ci rapiva via. Ma, come Dio volle, tornò sano e salvo in coverta; avea lo stesso viso di prima, e col solito suono di voce disse rimettendosi a nuove faccende: un altro po’ ci perdeva la vita. Queste parole sono semplici, e poche, ma rivelano un cuore sicuro. Io ammirai tacitamente la gagliardia di quell’anima popolana. Dimandai a un tale, che mi stava a lato, come si chiamasse costui. Mi rispose, che si chiamava la Scimmia; e questo nome in merito della sua singolare sveltezza. Seguitammo a correre col vento fresco, nè ci abbattemmo in altri casi; poi quando fummo in vicinanza dell’Isola, il vento rallentò, e rivenne la calma. Allora nuovamente mano ai remi, e così entrammo nel porto, ove un Ministro di Sanità ci ricevè colle solite forme. In somma il viaggio fu compito in poco più di 7 ore. Io non potei goderne, perchè durante il tragitto il mal di mare mi travagliò fieramente.