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stupidezza, – più che altro necessità di organismo. Era la bontà intelligente e operosa, la bontà del libero arbitrio, perchè Tacito aveva anima, passioni, ed energia di temperamento, aveva strumenti da volgere al bene, o al male volendo.

La malattia, che da ultimo lo spense, gli si ordiva da gran tempo lentissima nelle viscere. E quando i sintomi di quella si rivelarono insistenti, e innegabili, non si trattenne in vane lusinghe, misurò la grandezza del pericolo, comprese che i suoi giorni erano numerati, e lo disse imperterrito a tutti, e a sè stesso. Accettò il calice amaro della passione, e lo bevve pacatamente fino all’ultima stilla, raccogliendo l’animo invece, e facendolo più grande alla minacciante sciagura. E consecrandosi più che mai a quell’idea che l’aveva sempre predominato, non ricusò fatica nè occasione, andava fuori visibilmente malato, non curava riposo, non cercava aggiungere un filo alla trama della sua povera esistenza; una furia, un impeto lo portava; faceva sforzi che mal si potrebbero spiegare, dove non sapessimo che la volontà umana eccitata da un alto proponimento può far miracoli. Ma se lo spirito era pronto, la carne era inferma; e le forze più e più sempre prostrandosi gli convenne in fine mettersi a letto, e morire.

Gli ultimi giorni di Tacito furono solenni, e quieti della pace del giusto. Disposte con senno ed equità le cose sue, aspettava placidamente la morte e l’invocava talvolta più che altro per togliere alla famiglia desolata uno spettacolo d’immenso dolore. Era, come da sano, affabile e cortese con gli amici, che lo circondavano numerosi; era provido, discreto, e amoroso co’ suoi, che gli trepidarono attorno; dissi-