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vizia di anni fecero grave il sopracciglio, e magra l’anima, sullo studio delle parole. Che la terra presto vi sia lieve sull’ossa! qual bene mai venne alle Lettere, e alla Italia, delle vostre discordie di tre secoli? Voi avete aggiunto un anello alla catena delle nostre vergogne. Senza di voi forse non era la Lingua? Prima che Lionardo Salviati, e compagni, angustiassero uno spirito immortale, e lasciassero un legato di lacci a chi veniva dopo di loro, – prima che la Crusca stampasse il vocabolario, – Dante, il Petrarca, il Boccaccio, il Machiavelli, l’Ariosto, e il Tasso, davano consistenza e splendore all’idioma nostro. Da questi Grandi soltanto, che ebbero arguta la mente, e caldo il cuore di generose passioni, potrà il popolo apprendere la favella, e il pensiere. L’anima loro vive sempre nei monumenti di grandezza che ci hanno lasciati, monumenti, che ci serviranno di conforto e di lume, finchè offriamo loro un culto di amore perenne, come il culto che gli antichi offersero al fuoco di Vesta. Ma i pedanti non sanno che ringhiare: e che giova se un popolo impari a ringhiare? Abbastanza l’indole nostra è rissosa; e i fatti passati, e i fatti anche del momento che passa ora, lo affermano. Dunque ogni studio va convertito a pensare, ed è massima, che mai non sarà predicata a sufficienza in Italia. Troppo evidente è il divario, che corse fra la nuda parola e l’utilità immediata del pensiere, anche quand’è scompagnato dalle forme eleganti. Il Filangieri, e il Beccaria, scrittori di profonda ragione, non distesero per avventura i loro trattati con quella convenienza di favella, che si vorrebbe, e in questo non meritano lode; ma chi sarà tanto ingiusto, e di senno così poco Italiano, che ponga nella medesima lance quei due divini, e