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nimati fantasmi del tempo antico, mostrarono come la Vanità al pari di ogni altro idolo possa avere sacerdoti, e sacrifizi, e lunghezza di religione. Restano ancora le migliaia dei volumi, e se la farragine fosse misura di scienza potremmo chiamarci contenti; ma una lucerna a mezzogiorno non troverebbe in essi il perchè abbiano veduta la luce, – il nodo che lega l’opera all’uomo. E tu li puoi leggere; – ma è tutt’uno, – non giovano nè ai malati, nè ai sani. I più vennero fino a noi parassiti di fama sotto lo scudo del bel dire, e in ciò sieno a bell’agio maestri; – ma non insegnano il pensiere; – e se il pensiere non raggiasse fra mezzo alla polvere sollevata dell’uomo, chi vorrebbe essere un uomo? – Scrissero oziose rime d’amore non sentito, e prose cortigiane; pugnarono per la barba di Aristotele e di Platone, e le orgie grammaticali assordarono sempre le orecchie; ma il Vero più non ebbe sacra la mente, le opinioni più non ebbero indipendenza, e alla lingua rimasero lascivie, e precetti di vuoto frasario, non eleganza, o vigoria di stile; perchè, se l’anima non dà moto alle parole, stile non viene. La poesia, aura spirata all’anima umana dal cielo più bello, fece dediche; ma non accolse in onore le ultime scintille della virtù cittadina, non santificò il sangue caduto nelle battaglie ultime della patria. Si svolsero poche delle tante pieghe, ond’è gaia la veste della Bellezza, nè fu composto dramma, e romanzo, o dettato di socratica filosofia, a nutrire di cibo soave la ragione, e il sentimento. Quantunque la Bruttezza si ammanti gelosa da capo ai piè, uno spiraglio rimane, e il tardo raggio degli anni vi penetra a illuminare le generazioni. Quei secoli ebbero anticamere di potenti, e letterati di mestiere in ogni via