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rore. Nel seicento il servaggio ingagliardì per abitudini, e per giunta la follia predò senza interregno quei cent’anni sul cervello dell’uomo. Finalmente l’ultimo settecento sveniva di languore. Certo, il Genio d’Italia ardeva quasi sempre nelle tele, e nei marmi, e nella magica combinazione dei suoni, e così rese care e divine quelle forme della bellezza, che ne sospira in eterno l’invidia degli altri popoli. Certo, nei due secoli a noi più vicini una mano di valorosi si spinse nelle scoperte delle scienze positive; ma pochi hanno modo o volontà di battere il sentiero delle speculative astrattezze, mentre nacquero tutti alla violenza del pianto e del riso, tutti hanno un cuore, che il Grande può commuovere d’immenso moto, perchè la parola del Genio chiude virtù operatrice. I tempi non erano scarsi d’ingegno, anzi da ogni parte sboccava; ma i tempi erano cupi, e sfiduciavano. Mancava il coraggio, e credo fermo, che l’ingegno e il coraggio continuati nel grado supremo della loro potenza formino il Genio, creazione tanto rara e miracolosa, che la Natura par ne rimanga spossata, e cerchi il riposo degli anni lunghissimi. Mancava il coraggio, e i meno corrotti non osando provocare, nè volendo prostrarsi, tacquero nel dispetto, mettendo appena in comune i bisogni, e lo sprezzo; i tristi affatto, ed erano i più, a scuola di Tiberio scambiando in calcolo il sentimento, aiutavano la viltà di un popolo, che ogni dì sempre cadeva in basso.

Quei dottori non seppero esistere per la società dell’epoca loro; quindi pensavano ai morti, quindi allagata l’Italia di erudizione di ogni specie; ma il popolo in mezzo a tanta copia stette digiuno; e quei dottori, spregiando scaldare della vita nuova gl’ina-