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divini morivano senza una parola di rampogna consolandosi delle glorie future, perchè l’alto spirito, sorpassando il volo del tempo, fa sorgersi innanzi le generazioni increate. Ma in ogni petto non muovesi un cuore più che mortale per operare il bene senza riguardo di premio presente, fidandosi alla giustizia dell’avvenire. Quanti Italiani, sfiduciati dal sofisma degl’invidiosi, e dalla timidezza propria agli animi nostri, se manchi a suscitarli generosa una voce, percorrono l’esistenza chiusi nell’abbandono della viltà, persuasi che il nostro terreno sia rimasto sfruttato dal lungo numero delle anime grandi, e dalle sventure? Ma il lungo numero delle anime grandi ha da reputarsi piuttosto singolare felicità di cielo, che giusta ragione perchè debbano a un tratto cessare. L’argomento in qualche maniera terrebbe, laddove fosse proposito sempre delle medesime teste. Ma questo non consentì la Natura, che alternò con mirabile armonia la vita e la morte nelle sue creazioni, e in forza di questa vicenda stabilì la infinita varietà delle forme, la eternità delle sostanze, nè mostra di volere per lunghezza di tempo invecchiare, o per l’atto incessante del produrre esaurirsi, a meno che prima non si annientino le leggi per le quali ella è costante: e gli umani, soggetti allo stesso governo, via via cadono e sorgono in modo, che ad ogni breve misura di anni potresti dire che il mondo del pensiere rinasce vigoroso, e lieto dell’ardimento che infonde la giovinezza. Chi non sente che gl’Italiani non hanno peranche placata l’ira della Fortuna, quantunque le abbiano offerto in sacrificio secoli consumati nel pianto? Ma sapete voi, se a portare l’ale dell’ingegno valgano più le triste o le liete venture? I tempi tramandano infelici