vita di Carlo Bini, e condannarono le facoltà di un
intelletto nato potente a non rivelarsi se non per getti brevi e
spezzati; note d’una melodia, che, a svolgersi ricca com’era, domandava
la terza, e non l’ebbe. Io qui non parlo di scetticismo religioso:
parlo dello scetticismo letterario sociale, conseguenza quasi sempre
del primo, che ha esiliato tra noi come per ogni dove la poesia in
un angolo del creato, e l’ammira a patto che non n’esca a diffondersi
sulla vita; che ha impiantato sul dualismo dell’epoca in oggi morente
il dualismo della pratica e della teoria; che applaude sorridendo,
come a giuoco di ginnastica intellettuale o a visioni di anime
illuse, all’adorazione dell’Ideale, alla religione del sacrificio,
dell’aspirazione, dell’entusiasmo, al culto attivo, incessante,
dei forti pensieri, dell’immense speranze e dell’avvenire: dello
scetticismo che giudica freddamente com’opera d’arte l’espressione
scritta col vivo sangue del core d’un dolore profondamente sentito,
d’un desiderio ch’è forse il segreto di tutta una vita: dello
scetticismo che, per cancellare nel Poeta l’uomo, ha inventato
in questi ultimi anni l’artista. E dico che questo scetticismo,
oggi ancora prevalente in Italia, condannò Carlo Bini al silenzio.
L’anima sua pura, vergine d’ogni ambizione, ritrosa alla lode fino a
sdegnarsene, abborriva dall’idea del letterato di professione. L’Arte
gli pareva, ed è, l’espressione per simboli del Pensiero d’un’Epoca,
che si fa legislazione nella Politica, ragione nella Filosofia,
sintesi e fede nella Religione: per lui lo Scrit-