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capo xviii. 37


Il papa diceva che sarebbe condisceso a tutto, purchè proibissero i libri, e Frà Paolo obbedisse alla citazione del Sant’Offizio. Il Senato ricusava assolutamente l’ultimo partito, bene si contentava di proibire i libri, semprechè il pontefice facesse prima lo stesso dei suoi. Pareva non vi fosse via di concordia; ma in sostanza ambidue la desideravano: la Repubblica timorosa che da picciole cagioni nascesse qualche importuno turbamento all’assetto d’Italia, molto più stante i continui preparativi di guerra che faceva Enrico IV, e il bisogno di attendere a questo assai più importante negozio; e il papa sapeva che quel re non avrebbe voluto assisterlo, nè voleva commettersi alla discrezione della Spagna, perocchè, diceva, di papa sarebbe diventato cappellano: gli davano anco non lieve apprensione quelle mene coll’Olanda, e l’imminente arrivo di un suo ambasciatore a Venezia; e le altre coi protestanti di Germania, e gli affari della lega di Halla e di Cleves cui maneggiava che non cadesse in mano di principi riformati. Con tutto ciò lo pungeva continuo il rovello di aversi nelle unghie Frà Paolo. Benchè le astuzie fossero tante volte tornate infruttifere, volle ancora farne la prova. Col mezzo del suo nunzio a Venezia fece figurare l’ambasciatore di Francia Champigny, il quale, assunto il carattere di paciere, fece dire al Consultore che il pontefice era disposto a voler buona amicizia colla Repubblica, a che solo ostava la causa colla Corte, e che bisognava risolversi ad un componimento. Rispose il frate, che non poteva trattarne senza il consentimento del suo principe, e che a quello bi-