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capo xxx. 339

difficile; inappetenza, indi nausea di tutti i cibi; benchè avesse tutti i suoi denti, masticava con difficoltà; già macro, divenne squallido e livido; si rattristì il colore del volto; gli occhi già pria così vivi divennero fosci, s’incavarono; curvo il dorso, l’andare pesante, a fatica faceva le scale, a fatica saliva scendeva dalla gondola; il breve tragitto di Merceria spesso non poteva farlo se non appoggiato col braccio a’ suoi frati; scarsi i sonni, interrotti; i sogni frequenti, non balzani, ma regolari e come di veglia; disgusto di ogni cosa, tranne delle matematiche che lo occupavano persino in sogno, e alle quali pensando diceva spesso: Quanti nodi e quante reti ho fabbricato nel cervello! Ogni altra cosa, financo le novità politiche di cui fu sempre curiosissimo, gli riusciva o noiosa o indifferente. Le quali singolari mutazioni nel suo uomo osservando, diceva che era un partirsi pian piano l’anima dal vincolo e commercio del corpo. Fu consigliato a rallentare le sue fatiche in servigio pubblico e darsi qualche vacanza; ma rispose: Mio uffizio è servire e non vivere, e ognuno muore nel suo mestiere.

Quel rapido decadere di forze, quel precipitare continuo verso la tomba, lo costringeva talvolta a confessare di sentirsi male; e veramente il languore si faceva sempre più manifesto, ma pure guardava la morte con indifferenza e giovialità e ne parlava con facezia. Muoiono i papi, diceva, e non morrò io frate? Dettogli che in Roma si farebbe gran chiasso della sua morte, rispose: Forse che essi non morranno? E che si direbbero gran cose degli ultimi suoi momenti: Se Dio mi farà la grazia, spero di