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26 capo xviii.

sua casa, non curante delle cose d’Italia; la carboneria de’ gesuiti (uso questa frase non trovandone una più idonea a significare quella sêtta) diffusa, potente, faceva prevalere la sua politica in quasi tutte le cose, e inspirava, per così dire, i movimenti diplomatici e sociali di quel secolo: argine invero ai progressi della Riforma, ma inciampo alla civiltà, corruttela, come tutte le sêtte, della morale pubblica, inquietudine dei popoli. In mezzo a tante contrarie passioni la repubblica veneta stava timorosa dei Turchi, sospettosa degli Spagnuoli, in niuna concordia col pontefice, avversa al gesuitismo, sollecita della quiete d’Italia, ma incapace da sè sola a procurarla e a tenere la bilancia nella penisola. Enrico IV, che covava disegni di conquista, allettava il duca di Savoia promettendogli lo stato di Milano, e pressava la Repubblica perchè anch’essa pigliasse parte alla guerra. Ciò non garbava a Frà Paolo: «Ei non vuole uguali, diceva, non inferiori, ma servitori. Averlo nemico non è bene; ma tanta amicizia quanta c’è al presente, basta, finchè le cose non vanno più in là. Quando poi si desse mano a quella caccia di Milano, allora sarà forza dichiararsi o per Francia o per Spagna». Non gli piaceva una lega colla prima per motivi di conquista in Italia, ricordando le sventure della Repubblica quando per togliere lo stato di Milano a Lodovico il Moro si confederò con Luigi XII, conseguenza di cui fu la famosa lega di Cambrai che pose Venezia a due dita della sua perdita; e più diffidava di Enrico per essere ambizioso e guerriero, e perchè obbligato da molti fini a mantenersi bene