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capo xviii. 3

romana, intendendo che quella esenzione non era un diritto della Repubblica, ma una concessione del papa. Il Senato si querelò dell’uno e dell’altro; finse gradire il Breve, ma protestò l’inviolabilità de’ suoi diritti, e che per l’avvenire, il papa voglia o non voglia, nissun patriarca sarebbe mai più andato a Roma: e così mantenne.

Finita appena una questione, la corte romana, scaltra e tenace delle sue massime, ne suscitò un’altra, chiedendo che a levare ogni reliquia delle passate discordie e stabilire una piena e sincera pace, proibisse il Senato le opere pubblicate in quella occasione e ne impedisse lo smercio. Domanda insidiosa, a cui ove fosse accondiscesa, Venezia confessava implicitamente di avere avuto torto. Ne fu commesso l’esame a Frà Paolo, il quale in un consulto che è a stampa fece sentire la finezza dell’artifizio, i pregiudizi che avrebbe portato ai diritti della Repubblica, e le conseguenze perniciose che ne avrebbe tirato la Corte in suo favore. Espose le massime sostenute in quei libri conformi alle ragioni messe in pratica dalla Repubblica, e le mise a confronto colle massime contrarie sostenute dai Curiali di cui fa un lungo estratto usando le precise loro espressioni.

Il quale catalogo di solenni eresie spacciate come articoli di fede dagli avvocati della Curia, e più di tutti dal Bellarmino, tornò funesto alla gloria di quest’ultimo; imperocchè il cardinale Passionei avendolo riprodotto a tempi di Benedetto XIV, quando si trattava la beatificazione di quel gesuita, ciò bastò per escluderlo dalla aristocrazia celeste.