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si cercano indarno; che altro rimane se non che prender d’altrui, copiare dai libri, impastare, cucire, in fine imitare, e darsi per Poeta? Qual danno ciò faccia alla poesia, qual impaccio alla vita civile il sanno gl’italiani, e il sappemmo in Grecia eziandio qualche volta. Un sol rimedio sarebbe a tal male, ma come sperarlo, e da chi? Un tribunale dovrebbe istituirsi, a cui dovesse ognun presentarsi, che venga solleticato da prurito poetico. Innanzi a giudici saggi gli si farebbe esame dell’indole, e del talento, e certe pruove se ne farebbono ed esperimenti. Chi non reggesse a questi, all’aratro, e al fondaco come natura il volesse, o alla spada e alla toga n’andasse; chi riuscisse, un privilegio otterrebbe autentico, e sacro di far versi, e pubblicarli, qual di chi batte moneta del suo. Bando poi rigoroso a chi falsificasse il diploma, o contrabbando facesse di poesie non altrimenti che co’ Monetarj s’adopera, e co’ frodatori de’ dazj. Prigione, o supplizio secondo i falli, e questo non già poetico, e immaginario, ma inevitabile, e vero.