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di Virgilio e Inglesi. |
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ta, dicevano, che vivesse. Tesi l’orecchio ad udirli, ma indarno, che in coral lingua erano, e pronunziati per guisa, che tutto era nuovo per me. Quel linguaggio mi parve barbaro affatto sì per le voci d’acuto accento tutte finite, e la più parte fischianti, e moltissime rotte tra denti, e sì per la novità. Compresi infine dal ragionare de’ circostanti esser quello gallico idioma. Pensate quel mi rimasi ascoltando i romani parlar la lingua dei celti, e leggere i versi d’un poeta aquitanico, o belgico ch’egli fose, siccome del nuovo Omero, e Orazio. Ma crebbe in me lo stupore allor che indagando come ciò fosse, venni a sapere, che l’ultime Gallie cisalpine, che gli Eburovici, i Vellocassi, i Carnuti erano i greci, e i romani di quel tempo, Lutezia l’Atene dell'arti, e degl’ingegni, la Roma d’un nuovo Angusto, e d’un secolo nuovo; colà i Plauti e i Terenzj, gli Euripidi e i Sofocli, Tullj, i i Tucididi, i Titi Livi spirare, e rivivere; in Italia tradursi l’opere loro, quelle imitarsi, e leggersi sopra tutto, e quindi il linguaggio coltivarsi de' galli più che il