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in margine di un Codice membranaceo dantesco custodito nella Biblioteca Clarecini in Cividale del Friuli.

«Era una sera d’inverno del 1285, — centoventicinque anni dopo l’occupazione di Cerbaia fatta dagli Alberti. La neve cadeva a larghe falde nelle strette gole della Valle del Bisenzio. Il ventenne poeta saliva freddoloso, intirizzito, ghiacciato, l’erta disastrosa del castello di Cerbaia. La porta rotonda dai chiodi di ferro che gli si presentava davanti alla vista era per lui un faro in quel mare di neve. Pensava alla gentile accoglienza che avrebbegli fatto il barone od il castellano; forse la sua giovane mente si spaziava in sogni dorati, in fantasie da poeta. Si accostò alla porta ferrata e chiese ospitalità, come l’avrebbe domandata un paltoniere qualunque — per l’amor di Dio. Ma il ponte a levatoio rimase immobile: nessun portiere, nessun valletto corse ad aprire. E la neve continuava a cadere fitta e gelata. Pregò nuovamente, ma invano. Il castello di Cerbaia non fu il monastero della fonte Avellana. Una capanna da pastore poco lontano offrì ricovero al grande italiano, al più grande italiano che sia stato mai.

«E se per una notte solo egli fu fitto nel gelo, più tardi vi doveva figger per sempre gli inospitali baroni. Infatti vent’anni dopo, memore dell’avventura di Cerbaia, cantava:

Se vuoi saper chi son cotesti due,
     La valle onde Bisenzio si dichina
     Dal padre loro Alberto e di lor fue.
D’un corpo uscirò: e tutta la Caina
     Potrai cercare e non troverai ombra
     Degna più d’esser fitta in gelatina.

«I Conti Alberti comandarono con verga di ferro i loro vassalli. Le cronache toscane e bolognesi par-