Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
92 | LA TESTA DELLA VIPERA |
senza affetti, mentre un prepotente bisogno mi è nato di voler bene ad altrui, e che altri mi voglia bene.
«Pensare che questo tesoro d’affetto potrei averlo nella tua famiglia! Il mio padrino, io lo amerei, sento d’amarlo come un padre: te e Matilde, come fratello e sorella. Ma non oso neppure presentarmi alla soglia della vostra casa. Che accoglienza mi farete voi, e quale Alberto Nori?... Certi momenti m’imagino che io, andando a lui con una mano tesa e dicendogli: «Dimentica: io nell’avversario d’una volta, non vo’ veder più che un nuovo congiunto,» egli accetterebbe la mia destra e mi chiamerebbe cugino. Credo di ciò capace il carattere generoso del Nori; ma poi mi sgomento e non oso espormi al pericolo che un ostile accoglimento ridesti in me l’antico dèmone dell’ira.
«Ma di te almeno, spero e confido che tutta affatto spenta non sarà quella benevolenza, che mi dimostrasti un giorno, e ad essa faccio appello, come un assetato per soccorso d’un bicchier d’acqua. Vediamoci; poichè io non posso venire da te, vieni tu da questo povero solitario. Benvenuto tanto più se mi recherai la faccia e il cuore dell’animo di prima: benedetto se potrai darmi da parte dei tuoi una parola di pace.
«Tuo aff. Emilio Lograve.»
Il fratello di Matilde si affrettò di comunicare quella lettera al padre, alla sorella, al co-