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LA TESTA DELLA VIPERA 91

visse la vita chiassosa di Parigi: e in quel bailame dove si cola, s’agita e ribolle «la gran fiumana di tutti i vizî d’Europa e d’America» non ebbero a farsi migliori il suo cuore, l’anima, l’indole. Passò in Inghilterra, e ciò da cui più venne colpito furono l’egoismo, la crudezza della lotta degl’interessi, il disprezzo pei deboli che contraddistinguono quella razza di forti; in Germania vide il trionfo della forza: a Berlino e Vienna incontrò le stesse passioni, gli stessi difetti e vizî e ingiustizie, onde la sua primitiva disistima degli uomini e delle donne, il suo scetticismo, il suo rancore contro chi godeva gioje a lui contese, la sua rabbia di soddisfare le sue brame si accrebbero, nè migliorarono i suoi costumi e il suo carattere. Dopo cinque anni, intravvenuta un’amnistia pei reati di duello, Emilio Lograve tornava in patria, ancora più tristo, più invidioso, maligno, ma esteriormente cambiato affatto, grazie alla maschera e alla veste d’agnello ch’egli aveva creduto utile imporsi e aveva saputo vestirsi.

XI.

«Caro Cesare,

«Eccomi di ritorno in patria, ma ben diverso da quello d’un tempo. Gli anni, l’esperienza del mondo, la mia volontà hanno domato il mio umore, vinto gl’irosi impulsi del mio carattere. Mi sono fatto umile come un povero e mite come un agnello. E sono solo, senza legami,