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LA TESTA DELLA VIPERA | 157 |
XVI.
Quando Alberto ebbe udito i particolari del tentato delitto di Emilio, fu assalito da tanto sdegno, che si pentì di non averlo addirittura strozzato, quel mostro; protestò che ogni maggior vendetta sarebbe stata poca a tanta scelleraggine, e giurò che il domani l’avrebbe ammazzato come un cane.
Allora fu un altro strazio, un altro sgomento per Matilde. Alberto contro Emilio camminava ad una morte sicura: era la felicità, era la vita di tutta la famiglia che venivano tronche. Supplicò essa, scongiurò con lagrime, convulsa, impazzita, perdendo i sensi. Che un essere come Emilio era indegno di avere a fronte un uomo d’onore; che si doveva disprezzarlo, che ben altri doveri più sacri comandavano ad Alberto di astenersi da quel duello; ad Alberto marito e padre. Non pensasse pure a lei... Essa sarebbe morta di dolore senza fallo, nulla le avrebbe impedito di seguirlo nella fossa; ma pensasse ai figli, bambini tutti, che sarebbero rimasti al mondo senz’altro sostegno che uno zio troppo giovane e il nonno vecchio e malaticcio. E ancora, questi avrebbe egli resistito a una sì fiera catastrofe? alla perdita del genero e della figliuola?... Tutte queste ragioni torturavano il cuore d’Alberto; ma il suo giusto furore era troppo perchè egli potesse accogliere l’idea di lasciare impunita la iniquità di quel traditore.