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LA TESTA DELLA VIPERA | 149 |
Una mano le si posò sulla spalla, e la voce d’Emilio, venutole presso, le disse all’orecchio:
— No, rassicurati; egli non è che addormentato. Il soporifero, di cui tu non gli hai lasciato bere che una parte, ha ritardato i suoi effetti; ma pure ei ne ha bevuto a sufficienza per averne un sonno che nulla potrà interrompere, hai capito? Nulla!
Toccò la fronte e il polso del dormiente, sollevò le palpebre e ne osservò la pupilla volta in su.
— Per sei ore almeno quest’uomo è segregato dal consorzio dei viventi.
Matilde se ne scostò fremendo; sentiva uno spasimo tale di odio, di rabbia, di orrore, che se le fosse bastato dire una parola per incenerire quello scellerato, essa l’avrebbe detta con voluttà.
Successe un momento di silenzio. Si guardavano fronte a fronte quei due, egli con la feroce impazienza della belva che si vede innanzi senza scampo la preda, essa con quell’accesso di aborrimento, in cui cominciava pure a entrare un’altra paura. Sentivano, sapevano ambedue che qualche cosa di orribile stava per accadere fra di loro; e parevano, lui esitare ad assalire, lei sperare col suo silenzio d’indugiare lo scoppio.
Quell’angoscioso silenzio fu rotto da Emilio.
— Tu lo vedi, Matilde: non c’è nessuno che possa venire a porsi fra noi; tu sei completamente in mia balìa.
— No! rispose levando fieramente il capo la