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144 | LA TESTA DELLA VIPERA |
e la fermò afferrandole colle mani ambedue le braccia.
— Che cosa vuoi fare?... Fuggirmi?... Impossibile.
Ella s’agitava per liberarsi; la veste le si aprì di più sul petto, e gli occhî di Emilio caddero sulle seducenti curve del seno; egli strinse viepiù quelle braccia, tanto da lasciare su quella morbida pelle il livido dell’ammaccatura, le abbassò di viva forza, si curvò su quel giovane femmineo corpo fremente, e stampò un bacio che pareva un morso sul candore di quella spalla.
Matilde gettò un alto grido di indignazione, di ribrezzo, di orrore. Fece uno sforzo supremo e riuscì a svincolarsi dalle mani di lui; lo respinse lontano da sè, e presa da un accesso di spavento si diede a gridare:
— Ajuto! Ajuto! Lisa! Battista! Babbo!
Emilio stava innanzi all’uscio del corridojo ad impedirle il passo.
— È inutile ogni tuo grido, ogni tua smania. Te l’ho già detto e te lo ripeto; nessuno verrà. Lisa e Battista, a quest’ora, sono lontani delle miglia, e tuo padre, ci vuol altro che la tua voce a destarlo.
Queste ultime parole fecero correre un brivido di angoscia per le vene di Matilde: ricordò la pozione notturna, l’odore strano, le goccie versate da Emilio. Si arretrò di orrore.
— Infame! gridò, tu hai avvelenato mio padre!