Pagina:Berchet, Giovanni – Poesie, 1911 – BEIC 1754029.djvu/315

AMORE
Né perché Febo all’ infiammato ingegno
l’altrui pene racconti, oggi d’amore
la taciturna mia cella risuona;
ma perché troppo, benché verde etade
m’infiori il mento, alPAmastasia è noto
questo mio nome, a lei che d’amarezza
mesce i diletti. Aspre memorie e care!
Ché allo sbattuto navigante è dolce,
se mai lene soffiando aura il consola,
della bufera rimembrar la lutta.
Non che vergogna io senta. E chi vergogna
può sentire d’amor, se amor gentile
è che lo scalda? E il dite voi s’ io tacqui
a voi mai nulla, amate Eliconine,
come l’alma esultò quando la fiamma
fin le midolle divorava. Or quando
amor m’è noto a prova, e tu l’intendi,
vediam quant’altri lo conosca. Il dio
certo governa Elvira: odi siccome
mastra d’affetti ella si vanta. Aleggia
a lei dall’alba, che meriggio è al vulgo,
il divin nome intorno, infino allora
ch’ella consegna al marito importuno
le membra ed a Morfeo l’alma pupilla.
E d’amor servi non diremo i proci,
che le circondan la dorata scranna
eternamente? Ivi ella splende all’altre
belle rivali invidiata dea.
Invidieremla noi? Solingo Amore
fugge i tumulti, e non sorride a tanta
sfaccendata caterva. E chi l’aduna?
Molti a lei ne condusse il suo diletto
facile sposo: ossia ch’una soave
gioia discenda al cor di buon marito
da tanti invidi sguardi; ossia che quando
a piè profano penetrar non lice
ne’ recessi odorati ove allo speglio
siede la donna, per le mute sale
pensoso il passeggiar duro gli fosse.
Ma con rigido volto apparsa Elvira,