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Ceniam subito, contessa,
di quel poco che v’è li.
— Conte mio, gli è apparecchiato
come sempre gli altri di. —
Sedè il conte giú alla mensa:
non cenava, non potea:
con a lato i suoi figliuoli,
ché un gran bene a lor volea.
Piegò il capo in su la spalla,
fe’ parer che sonno avesse:
e copria tutta la mensa
delle lacrime sue spesse.
La contessa lo guardava;
non sapeva, non capia;
non fea motto a interrogarlo;
non poteva, non ardia.
Dipoi ratto surse il conte:
disse ch’ei dormir vorrebbe.
Disse tosto la contessa
che altrettanto ella farebbe.
Ma tra lor non v’era sonno,
se il ver proprio s’ha da dire.
Vanno il conte e la contessa
lá dov’usan di dormire.
Lascia il conte i figli fuora;
non vuol vengano con essa:
tolser solo il piú piccino,
quel cui latta la contessa.
Serra il conte la portella,
che non era la sua usanza.
Cominciò a parlare il conte
con dolor, con lamentanza:
— Oh, contessa sventurata,
che sventura ti toccò!
— Noi son io; noi sono, o conte;
sventurata non son, no.