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libro secondo - capitolo ii 131


Intanto la corte sempre avida di sapere, e che al fine tutto sa e nulla tace, aveva penetrato che il duca né partisse con gusto intiero né intieramente lo lasciasse in palazzo, e che egli avesse molto piú domandato di quello che avesse ottenuto. Giudicavano specialmente i piú avveduti della corte medesima quasi impossibile fra il duca e Aldobrandino potersi stabilire buona e ferma corrispondenza. Il duca veniva reputato prencipe d’alti spiriti e dominanti, e perciò credevasi ch’egli non fosse per contenersi dentro a quei termini che avrebbe voluto Aldobrandino, pieno d’alti concetti e bramoso della dominazione ancora egli, e che abbagliato dalle fuggitive grandezze presenti si fermava molto piú in esse che nel disporsi alle declinazioni future. Cosi giudicava la corte, e veramente questo riusci non giudizio ma vaticinio. Percioché dopo succeduti fra loro di tempo in tempo vari disgusti per varie occorrenze che nondimeno lasciavan luogo al poter vivere dissimulati, nacquero poi tali accidenti che fecero disunir gli animi e piú ancora gl’interessi dell’una e l’altra parte, e convertirono finalmente l’amore in odio, la stima in disprezzo, ed ogni senso di parentela in professione aperta d’inimicizia, e questi accidenti perturbarono in maniera il papa stesso che per opinione commune tanto piú presto per tanto lamentevole esito ne segui al fine la sua morte. Né si dubita ch’egli non rimproverasse quest’azione piú volte al nipote, e non si mostrasse pentito di essere condesceso nei sensi di lui, piú tosto che di aver ritenuto con maggior costanza i suoi propri.

Ma di questi e altri successi ne’ quali parve che papa Clemente col declinar dell’etá sempre piú umanasse, per cosí dire, e sempre piú intenerisse a favore de’ suoi, io di mano in mano altrove anderò parlando conforme alle occasioni che in varie maniere gli andarono producendo.