A’ le quai voci i fanciullin fratelli
Tutti correndo, et iterando insieme
Gli uditi detti, più cresceano il giuoco
Co’l trescar che facean presso Cupido,
Et co’l chiamarlo da la madre vinto
Non senza scherzi, et voci, et atti à un tempo.
Ma Cupido che’n ver vinto parea;
Tacito scorno havendo impresso al volto,
Giunse sdegno al suo sdegno, udendo in quella
Il comune gioir de i circostanti,
Benche semplice il gioco era in ogniuno.
Et tanto in ciò durò senza fare altro,
Ch’al fin l’ira scoverta, il core acceso
Mostrò d’orgoglio et d’infiammato cruccio.
Cotal penso mostrossi, allhor che Phebo:
Che del vitto Pythone andava altiero,
Percosse irato, ove nel cor li fisse
La radice immortal del suo bel Lauro.
Ben sà, chi pruova Amor, quanti son fieri
Li sdegni et l’ire, di ch’Amor se stesso
S’arma et infiamma à nostri danni; ò sieno
Sieno, i prego, lontan gli aspri furori
Usi venir da lui, poi che pur troppo
So come crudi sono, et che fierezza
Piove dal volto del’acerbo Dio,
Mentre’l lume perduto, e cieco affatto