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LA FAVOLA

     Ma pietà non poteo piegar gia mai
     Quel fiero Borea, per cui mai non rieda
     (Prego) volgendo le stagioni, il verno,
     Si che poco il crudel regni, ch’apena
     Merta in Scithia regnare, et ne Riphei
     Monti, la dove State et Primavera
     Han dal gelo indurato eterno essilio,
     Ma poi che di tua morte io son l’autore,
     Et la mia forza t’ha trafiitto il corpo,
     E i miei sospir t’han gettata à terra.
     Come presente almen non son’io stato,
     Presente al tuo destin? certo t’hevrei
     Dato al’uopo maggior picciola aita,
     O le piaghe adolcite, ò ver’un segno,
     Mostrato del mio amor, mentre eri viva,
     Men doglia portarei, mentre sei morta,
     Ah che pur forse col voler di Giove
     Ne la medesma scorza avrei potuto
     Chiudermi teco, et ricoperto in questa
     Scorza gentil, mi trovarei congiunto
     Teco in quel nodo, onde disgiunto vivo.
     Ah che ne questo vuol voler il cielo,
     Che se il ciel lo volesse, ancho non fora
     Intempestivo il rimanermi teco
     In si dolce union, dolce mia Pyti.
     O Niobe felice, che felice