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LA FAVOLA

     Et me, s’ivi son nata, accogli anchora
     Ne lei viscera tue, pregando humil
     L’alta Giunon che poi che ’l regno tiene
     De l’aria, et vede il torto indi à me fatto
     Dal nemico spietato, hora proveggia
     Por inanzi al mio corpo, e ’l suo favore
     Mi presti si che non distempri mai
     Le reliquie de l’ossa, ò caldo, ò gielo.
Molti furo i dolor molte l’angoscie,
     Che la madre mostro, molti i lamenti
     Ch’udir di lei Giunone et Phebo, à quali
     Si spiacque il caso rio, che non cessaro
     Di consolarla de la morte viva
     De la chara figliola, medicando
     Col dire l’animo, infermo et l’egra mente
     Con quanto si potea per lor soccorso.
O, gelosia d’amanti aspro veneno
     Di speranze nemica alme et leggiadre,
     D’ombre pallide amica, et di mentite
     Larve cella ripiena, ond’escon fuori
     Sospetti, et quel Fantasma ch’ad amore
     Gli occhi ciechi apre, et nel veder Linceo
     Fa che vinca d’assai, vedendo sempre
     Quel ch’ei non vede, et quello udendo insieme
     Che giamai non udi. Quanti aspri mali
     Sorgon da te fontana di dolore?