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mento naturale alla più giudiziosa abnegazione, facendo del paese nativo una vera patria, il paese di un padre che mantiene in vita il popolo e non un idolo per il quale si è pronti a morire».


CAPITOLO VENTICINQUESIMO




Fin dal principio, quando io diventai un coabitatore della sua casa paterna, Editta Leete aveva fatto su di me una profonda impressione, ed era da aspettarsi che, dopo ciò che era accaduto la sera innanzi, il mio pensiero si rivolgesse ora maggiormente a lei. Mi aveva sempre colpito la giovanile serenità e la schiettezza che la caratterizzavano, qualità da me riscontrate più nei giovanetti che nelle ragazze. Avrei saputo volentieri sino a qual punto essa possedeva queste qualità, o se forse erano i risultati dei cambiamenti nella posizione sociale delle donne e trovandomi in quello stesso giorno col dottor Leete, guidai la conversazione su questo stesso punto.

«Suppongo,» dissi, «che le donne al giorno d’oggi, essendo liberate dal peso del governo domestico, non si occupano che di apparire belle».

«Per ciò che concerne noi uomini,» rispose il dottor Leete, «troveremmo completamente giustificabile che si dedicassero a tale occupazione; ma potete esser sicuro, che esse sono troppo superbe per accettare d’essere le prebendarie (se si può usare il termine) della società, qual ricompensa di esserne l’ornamento. Esse hanno accettato con gioia la loro esenzione dai lavori domestici, poichè questi non erano soltanto faticosi, ma erano uno straordinario consumo di forze in confronto del nuovo sistema; però accettarono l’esenzione da quel lavoro, per servire in modo più efficace e più piacevole al bene pubblico. Le nostre donne sono, come gli uomini, membri dell’armata industriale, ed abbandonano questa, solo quando i doveri di madre lo richiedono; da ciò ri-