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INTRODUZIONE LXXIX

Le Lettere sono come i frammenti superstiti di un’intera serie di composizioni burlesche, che dovevano scambiarsi tra loro i varii cultori del dialetto in quel tempo. Le allusioni, che son molte, a cose e persone, provano quest’asserzione.

E, specialmente, alcune allusioni gettano una luce — , scialba, se si vuole, ed incerta — , su uno dei libri più belli ed importanti del dialetto napoletano. — Per quanto mi dolga di dovermi indugiare su tante questioni incidentali, non posso farne di meno, perchè, da una parte, la storia della letteratura dialettale non è stata ancora fatta, e dall’altra, io non posso procedere nella mia esposizione, senza stabilire alcuni punti sicuri, da orientarci in quest’oscura regione della storia letteraria; e, non trovando fatta la ricerca, sono costretta a farla io.

Nel 1646 lo stampatore Camillo Cavallo, che stampò anche le opere del Cortese e del Basile, pubblicava, ad instanza di Tomaso Morello, un libretto intitolato: De la tiorba a taccone de Felippo Sgruttendio de Scafato 1. Il Morello dedicava l’opera a Gennaro Moscettola, dicendola: «parto di un ingegno, che, fra’ primi, nelle delizie di Pindo, campeggia». Dunque, par certo che l’autore, a quel tempo, fosse ancor vivo. Quel, che non è certo, è che questa edizione sia la prima 2.



  1. Per Camillo Cavallo, MDCXLVI.
  2. I bibliografi non ne citano altra antecedente; ma ciò non vuol dir nulla. Ragioni di non crederla edizione originale, addusse l’Imbriani, nelle illustrazioni alla Posilecheata del Sarnelli (Nap., 1885, p. 222).