Pagina:Basile - Lu cunto de li cunti, Vol.I.djvu/75


INTRODUZIONE LXV

Regimen sanitatis, dei Bagni di Pozzuoli, del Libro di Cato, ecc., e la Cronaca di Partenope, e i Ricordi di Loyse de Rosa, e, via via, gli atti pubblici della Corte aragonese, e della città di Napoli, fino alla metà del secolo XVI. Nello stesso dialetto ibrido, furono scritte quasi tutte le opere letterarie del tempo aragonese, poemi, cronache, trattati d’ogni genere, tranne quelle poche, che rappresentano il rifiorire del toscanesimo.

Ma c’è un gran divario tra l’uso spontaneo e naturale del dialetto, e l’uso di esso, intenzionale, voluto, artistico. Intorno alla metà del secolo XVI, il dialetto napoletano, com’era già caduto dall’uso degli scrittori letterati, così sparì dagli atti pubblici, nei quali ancora si adoperava 1. E il dialetto restò alla sola letteratura popolare, ai canti del popolo, e alle famose villanelle napoletane 2.

Qualcuno dei poeti popolari, oltre i canti che diventavano patrimonio del popolo, scrisse qualche poesia, di genere non istrettamente popolare, in dialetto. Velardiniello, per es., o chi si cela sotto questo nome, fu autore, tra l’altro, di quelle belle ottave, che rimpiangono il buon tempo antico, e finiscono col grido, del quale si sente la sincerità:

               Sai quanto fuste, Napole, corona?
               Quanno regnava casa d’Aragona 3!



  1. Galiani, Del dialetto napoletano, ed. seconda, Nap., Porcelli, 1789, pp. 119-20.
  2. Cfr. Capasso, Sulla poesia popolare napoletana (in Arch. Stor. Nap., VIII, 1883).
  3. Le ottave, che cominciano: Cient’anno arreto ch’era viva vava,

ix